Luni, 28 aprile 2020
Ho scritto questo racconto su una domenica spesa a cercare tesori, recuperare scarti e mangiare dalla stessa ciotola, poco prima dell’isolamento. Rileggerlo oggi mi fa un certo effetto, proprio perché per me era stata una giornata che avevo deciso di dedicare a Stefano e a Nicolò, e in cui avevo messo da parte le preoccupazioni sul futuro, il lavoro (extra) e il telefono. Mi sentivo come se avessi fatto un vero e proprio atto di resistenza al tempo e allo scorrere routinario della mia vita. Ora però, sento quanto io sia cambiato, quanto la percezione del tempo sia mutata e quasi non mi ricordo come si possa svolgere una vita al di fuori del perimetro della mia abitazione.
Non mi ero mai accorto, fino ad ora, come il tempo agisse in maniera così forte sul nostro corpo e sul contesto, perchè di solito viro l’attenzione su altro: i miei capelli sono cresciuti di mezzo centimetro a settimana; il sole si è spostato sull’orizzonte di circa 3 km - dal mio punto di osservazione; il buco nel lobo sinistro è completamente rimarginato; il ciliegio è fiorito e ha perso i suoi petali nel giro di poche settimane.
Il paradosso è che percepisco il tempo scorrere in modo tanto veloce da sembrare immobile. Potrebbe passare ancora un giorno, un mese o un anno da quella domenica, ma la distanza, nella mia memoria, rimane la stessa.
Saronno, 16 febbraio 2020
Da quando conosco Stefano e Nicolò, sono sempre rimasto affascinato dai racconti degli oggetti recuperati che utilizzano come materiali principali per le loro opere. Il recupero non ha niente a che fare con scelte ambientaliste, bensì con la capacità narrativa degli oggetti.
Per questo motivo ho deciso di accompagnarli in una delle loro “esplorazioni industriali”, così da conoscere la loro ricerca e, di conseguenza, avere più informazioni rispetto al loro modo di percepire l’arte.
Vicino a casa mia, c’è una grande fabbrica abbandonata: uno di quei posti che, durante la notte, risultano spaventosi e il cui mistero inquieta i meno temerari. Così, anche per esorcizzare la mia paura, ho proposto al duo di andare là, completamente allo scuro di che cosa questa industria producesse e perché fosse stata chiusa.
Era una soleggiata domenica pomeriggio, la temperatura era mite e il cancello dell’industria era aperto. Inevitabilmente questi luoghi, dopo l’abbandono, vengono esplorati, abitati, invasi e distrutti da diverse entità. Si caricano di bellezza e di fragilità, di vita e di abiezione.
“Noi non siamo mai i primi che arrivano sul posto” ha tuonato il duo “Anche se ci piacerebbe”. Arrivare dopo un po’ di tempo permette, innanzitutto, di essere più tutelati: trasgredire una proprietà privata dopo che altre persone sono entrate, sembra non essere così pericoloso (e illegale). In secondo luogo, la fabbrica si carica di nuove narrazioni, dissonanti e discordanti dalla norma. Infatti, appena entrati abbiamo percepito che l’edificio era abitato. “E se incontriamo qualcuno che abita qui, come dovrei comportarmi?” ho chiesto un po’ perplesso.
“Tu saluta e sorridi” e subito, in lontananza, abbiamo notato due bici che si dirigevano all’entrata, appena lasciata alle nostre spalle. “Salve!” abbiamo esclamato a voce forse un po’ troppo alta.
Entrando nella fabbrica, siamo stati accolti da un grande piano avvolto dalla penombra. Gradualmente, alcuni elementi si andavano a delineare, man mano che ci avvicinavamo, emergendo dall’oscurità. Le forme si trasformano, caricandosi del vissuto del luogo, e colpiscono la nostra parte più sensibile. In quel momento, ho compreso che non eravamo là solo per portare via oggetti, ma anche per appropriarci delle forme e delle sensazioni che hanno attraversato gli elementi del luogo. Girovagando per l’industria, si scorgevano vetri rotti, tendaggi che fluttuano, macchine bruciate, piante che si riappropriano del luogo. Al contrario degli elementi che vengono recuperati, le forme non possono essere portate via fisicamente, ma possono essere prelevate perché si staccano dagli oggetti stessi. Rimangono nella memoria, e sedimentano.
”Quel buco con quel liquido, quei cavi che emergevano!” ha esclamato Nicolò “Mi si imprimono nella mente, e penso subito alle possibilità per ricreare la stessa forma o per formalizzare diversamente la stessa intuizione. Quelle sono le forme che porto via dall’edificio, diventando qualcosa a cui punto.” “Non è detto che le forme ricompaiano subito, ma gradualmente evolvono e tornano alla mente nel momento in cui hanno capito che cosa dire.” ha precisato Stefano.
Dopo un po’ di tempo passato lì dentro con loro, sono immerso in una dimensione ludica che fa apparire il posto pieno di tesori. Io, ormai in testa al gruppo, vagavo per le stanze deserte, mentre Stefano accatastava tubi, cavi, prove di stampa e cartelli, e Nicolò scattava foto a parti dello scheletro dell’edificio. Questo tipo di esplorazione, mi ha raccontato quest’ultimo, è stata ripresa dalla Urban Exploration (Esplorazione urbana), o Urbex, la quale attraverso la fotografia documenta luoghi abbandonati, edifici urbani che sono stati scartati dall’avanzamento produttivo, luoghi storici, ma inaccessibili e, in generale, tutti quei posti dove è vietato entrare e la cui vista è negata. Un passo ulteriore è stato fatto attraverso il recupero di oggetti ed elementi architettonici. “Prendiamo gli scarti, anzi gli scarti degli scarti: se ne sono andati tutti dall’industria, portando via gli oggetti principali e lasciando il resto nell’edificio. Il passaggio umano ha ingurgitato quello che rimaneva e prodotto altro scarto.” Ogni elemento è diventato quindi un reperto di Storia urbana contemporanea, quella che non rimane impressa nella memoria o stampata sui libri, ma viene introiettata negli oggetti e nelle forme a testimonianza di un tempo passato.
Siamo arrivati al magazzino, che si trova al punto più estremo della fabbrica, poco prima del tramonto. Qui è condensata tutta la storia dell’edificio: tessuti, insegne e targhe in vetro testimoniano quando nella fabbrica venivano utilizzati quei cavi, venivano sostituite quelle cinghie, venivano stampati quei fogli che il duo ha recuperato. Difficile è descrivere in quale modo tutte le vite che abbiamo scorto nella giornata abbiano colpito gli oggetti e li abbiano plasmati in maniera leggera, poco alla volta. Il materiale raccolto, proprio in virtù del suo carico emotivo ed energetico, non produrrà subito un’opera. Come le forme che si sono impresse nella mente, anche gli oggetti devono evolvere.
Mi hanno raccontato che non è semplice svincolare certi oggetti dall’emozione che comunemente si attribuisce loro. Per questo hanno strutturano un linguaggio in grado di allontanarsi dal senso comune per trasmettere la sensazione che vogliono comunicare.
“Prima si compone un linguaggio, questo viene introiettato e poi emerge nuovamente armonizzato alle altre forme ed espressioni in maniera efficace.” Così facendo viene allenata l’emotività, che non diventa autoreferenziale ma una questione empatica, capace quindi di far risuonare un’emozione nell’altro.
Alla fine della giornata, ho portato a casa un cartello con la scritta “idranti”, ma avevo la testa piena di tutte le forme e di tutti gli oggetti che avrei voluto prendere. Allora Stefano mi ha guardato e mi ha chiesto, sorridente “Quante persone conosci quotidianamente? Quante ti rimangono?”
Gianluca Gramolazzi (Massa, 1991) ha condotto i suoi studi tra lettere, filosofia, comunicazione e arte contemporanea.
La sua ricerca critica e curatoriale verte su tematiche legate all'identità inserita nel contesto politico e sociale come testimoniano i suoi ultimi progetti come Art Resistance Kit, ideato per l’account Instagram di That’s Contemporary; Calathis: Dandelion, rassegna prodotta in occasione della Milano Pride Week 2019; e The Loser Standing Small Beside the Vicory, presso SpazioSerra e fruibile sempre su SoundCloud. Scrive per diversi magazine come Exibart, FormeUniche, Made in Mind magazine,That’s Contemporary e Art for Breakfast.